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Vincenzo Balsamo è un artista mediterraneo che non si è accontentato, non si è
fermato alle origini. Non potendo, per motivi di famiglia e di bisogno, completare studi
accademici, ha dapprima cercato di assimilare e di affinare tutti i segreti delle botteghe,
nel lavoro meticoloso e puntuale del decoratore; poi ha inteso perlustrare molti dei luoghi
e degli ambienti, visitandoli di persona, dove si erano sviluppati i magisteri della grande
pittura europea.
I suoi viaggi a Parigi, a Lugano, vanno proprio intesi in quest'ottica di sete di
conoscenza, e di approfondimento diretto. A Parigi l'artista finì addirittura per trasferirsi
nel 1991. E dove non potè toccare direttamente i luoghi e respirare le atmosfere, gli
venirono in soccorso i musei, di cui è stato un goloso frequentatore.
Dunque un autodidatta mediterraneo, colto e instancabile nella ricerca, attratto, quasi
biologicamente, anche dalla pittura Nord Europea, che è andato, in questi quarant'anni di
lavoro, svolgendo un processo di approfondimento e di metabolizzazione quasi
contemporaneo, senza concedere troppo, nel suo tragitto artistico, a particolari momenti
di divaricazione. I suoi primi due decenni si sono sviluppati, inizialmente, alla ricerca di
una definizione della strutturazione plastica, poi in un progressivo allentamento della
stessa, ed in un altrettanto progressivo alleggerimento della densità materica di un
colore, che, nelle prime esperienze, era quasi fisicamente, tattilmente percettibile, per
una urgenza di rappresentazione immediata, anzi di immedesimazione con l'oggetto
dell'opera; sempre confermando, comunque, una priorità di attrazione alle gamme dei
bleu, dei verdi, dei rossi. E su questo percorso convergono le influenze e gli stimoli che
derivano dalla frequentazione o dallo studio dei più importanti movimenti ed aspetti della
pittura moderna: dal Post-Impressionismo, all'Espressionismo, al Cubismo ed al
Futurismo (soprattutto in una versione molto italiana, Severiniana, di impianto
decorativo), all'Informale, inteso un po' genericamente, come luogo della libertà del gesto
e della sperimentazione dei materiali, fino alle verie declinazioni dell'Astrattismo. Che
rimane certamente in un'ottica molto sofisticata, che cercheremo di analizzare in queste
pagine, il significante momento di sintesi di tutte le sue esperienze.
Agli inizi, dunque, l'incontro, più o meno consciamente cercato, con la pittura del Nord-
Europa, e quello, sicuramente più meditato, con la "Scuola Romana", oltre ad aver già
condotto le gamme cromatiche verso tonalità scure, quasi incupendo il tessuto coloristico
del dipinto, per di più con ruvidità e durezze abbastanza inconsuete per un pittore
mediterraneo, spingeva Balsamo ad una scrittura che sì "...porta la luce, poiché il colore
non è mirabilmente impastato, e l'opera ne diventa tutta luminosa, non per forti contrasti
di chiaroscuro, bensì per trapassi di una luce violenta ad una più tenue e da un'ombra più
chiara ad un'ombra più fitta" (1), ma che era soprattutto portatrice di ombra, di assenze
quasi assolute di luminosità, in un sentimento del paesaggio e pure della natura morta,
che sembrava davvero risalire, magari oltre la coscenza e le intenzioni, ad una matrice
espressionista. Ecco, le origini dell'arte di Balsamo mi pare si debbano far risalire a
questo intreccio, a questa mescolanza fra una natura mediterranea, oscillante fra la
sensibilità barocca e sensuale e la coscenza razionale e speculativa, ed una cultura
aperta alle istanze ed alle pulsioni del Nord-Europa. In quel primo periodo era
probabilmente la componente sensualità a condurre la danza, ma contemporaneamente
la sua coscienza speculativa tendeva a guidarlo, a farlo approdare al porto, alla grande
rada ed alla quiete del linguaggio cubista. E certamente un'analisi attenta della sua arte,
non potrebbe non sostare su questo passaggio, o su questa matrice postcubista,
direttamente affiorante nei primi anni settanta, affermandosi come strumento primario del
processo di scomposizione della forma, e di frantumazione della prospettiva;
nuovamente dterminante nei primi anni ottanta, ma in chiave più di ricomposizione e
collegamento strutturale; tutt'ora significativa e feconda dopo il decisivo incontro con la
stagione dell'Astrattismo. Dunque l'abbraccio alla grande lezione cubista, peraltro
comune a quasi tutti i giovani artisti del dopo guerra italiano, risultava pressoché
obbligatorio, perché permetteva a Balsamo di sezionare, di spartire, di analizzare gli
aspetti naturalistici della realtà, a cui restava comunque legato, come i paesaggi e le
nature morte, così baroccamente colme di oggetti, senza rimanere avvinghiato ad una
dimensione figurativa e di superfice. Gli sembrava, forse non a torto, che l'impatto
emotivo, partecipativo nei confronti dell'oggetto, un tempo affidato al colore puro,
all'immediatezza materico-cromatica, potesse venir preservato, quasi salvaguardato in
una sorta di decantazione, da quella metrica rigorosa, così scandita nell'evidenziare i
piani, gli angoli, la natura geometrica delle cose. Ed allo stesso tempo gli permetteva di
allentare la rigidità formale dell'opera, attraverso una griglia ancora strutturata, ma che
andava a permettere una frantumazione della forma. Balsamo aveva ed ha una natura
che lo spinge a frazionare, a suddividere per ricomporre; non è un artista da abbracci
acritici, da immersioni incondizionate. È un artista analitico. Ed infatti mi pare che le
fughe successive, quelle della metà degli anni settanta, verso una gestualità abbastanza
casuale e irrazionale, e verso le ricerche e le avventure materiche, fossero mosse
soprattutto da un sentimento debitorio (come peraltro per molti artisti della sua
generazione) nei confronti della poetica dell'Informale. Forse le "Decomposizioni", o le
"Nebulose", ad esempio, non erano completamente farina del suo sacco, perlomeno non
attinenti alla natura più sincera e profonda della sua pittura. Ma, quando nel 1981 "Lo
schermo liquido e galleggiante", che erano ormai diventati i suoi dipinti, nel periodo di
"Filamenti" riprende a organizzarsi, secondo una scrittura strutturante, la fluidità curvilinea
dei segni organici, verrà ad anninciare il proprio superamento ed una definitiva ripresa
del rapporto con la lezione cubista. Da questo momento, le varie "Visioni simboliche",
così come i "Pesci", la "Brocca", o una "Lettera", ci parleranno di forme frantumate che si
inseguono e si accavallano, ma anche di una certa riorganizzazione compositiva , in cui
angoli e spigoli ricominciano ad apparire. E più ancora che di riferimenti cubisti
dovremmo parlare di legami ed influenze "cubo-futuriste", ché già con i dipinti della fine
degli anni settanta, si era manifestato un interessa di Balsamo per il Futurismo. Ed ora
questo interesse diviene preminente, affascinato com'è l'artista dalla lezione Severiniana,
che lo spinge a immettere nel suo lavoro una tessitura, un ordito di memoria "cubo-
futurista", quasi una presenza ideale ed organizzativa al tempo stesso. Tutto sta
comunque avviandosi verso una definitiva scelta astrattiva. Mondrian e Kandinsky, più o
meno consciamente, aprono starde e soluzioni per una pittura che ha finito per
completare il processo di devolumetrizzazione e di frantumazione di ogni accidente
plastico, ha frazionato il più possibile le linee di fuga prospettica, ha diffuso su tutta la
superficie una scrittura sincopata, eppure quasi corsivamente segnica; e che è riuscita a
tenere comunque i collegamenti fra tutte queste spinte centrfughe, in grazie di un
particolare rigore formale e cromatico. Ecco, le opere di Balsamo di questo ultimo
decennio ci offrono un piccolo miracolo di sintesi. Le urgenze, gli spunti e le pulsioni in
questi dipinti, quella narrativa, quella emozionale ed evocativa, quella strutturale e
compositiva, quella decorativa, tutte, riuscendo comunque a privilegiare la propria
identità e la propria necessità di manifestazione, vengono a quietarsi e armonizzarsi in
unico disegno compositivo. L'astrazione, per Balsamo, è sintesi, e non potrebbe essere
diversamente per un artista che manifesta interessi e stimoli molteplici, ed anche
divergenti. La ripetitività della grafia, alla quale egli si abbandona liberamente, ma
consciamente, lasciando che la scrittura scavi nella memoria, scruti e faccia emergere
l'emozione trattenuta, diventa uno strumento per penetrare il magma delle passioni, degli
accadimenti, delle vicende, dei ricordi, ma uno strumento che Balsamo padroneggia
utilizza, guidandolo verso percorsi mirati. Così come l'altra fonte di liberazione e di
riconoscimento dei sentimenti e delle commozioni: il colore, anch'esso colore della
memoria per la capacità di risvegliare e richiamare alla coscenza l'emozione, e non tanto
di rappresentarla, il colore stesso, nelle sue gamme tipiche dell'azzurro, del rosa, del
verde, viene modulato secondo declinazioni e armonie più mentali, eidetiche, che tonali.
E così anche mentale, ideale, quasi matafisica, ci appare quella diffusa irradiazione
luministica, che avvolge, circonda e penetra ccompletamente ogni dipinto; come ogni
opera risultasse frutto di una immersione in un pulviscolo luminoso di origine
trascendente, e della riemersione conclusiva, come un prodotto filtrato, depurato da ogni
scorta, da ogni aspetto superfluo. Tutto, dunque, viene scandagliato, sezionato, affrontato
nelle infinite sfaccettature, attraverso questo brulicare di segni, e questo affastellarsi di
fasci luminosi, ma tutto viene anche ricondotto ad unità compositiva, attraverso l'utilizzo
parsimonioso , di poche linee guida, di una sapiente e misurata sottolineatura grafica.
"Quelle linee formali costituiscono sull'intrecciata superficie segnicamente tramata in
modo del tutto regolare e appunto luminosamente attivante come l'endogena potenzialità
di un display in questo caso pittorico, di volta in volta in un irripetuta fenomenologia di
possibili itinerari narrativi equivalenti alla rivelazione dei moti microprocessuali appunto
di una fisiologia immaginativa, ogni volta virata cromaticamente secondo possibili
diverse cadenze d'umore evocativo, gioioso o riflessivo, e a volte quasi drammatico" (2).
Dirà bene Enrico Crispolti, intuendo così anche l'effettiva portata di una altro segreto
dell'unitarietà e, allo stesso tempo, dell'articolazione della sinfonia pittorica di Balsamo, o
mutando ancora da Crispolti, di una "musicalità free-jazz, in un sound piuttosto
prevedibile ma continuamente diverso e sorprendente"(3). Non è solo, infatti questa
sintesi lineare, questa architettura segnica, il vero collante della sua pittura: sta, piuttosto
nella sostanza luminosa del colore, che discioglie la propria specificità puramente
cromatica in un tessuto luministico (un colorepregno, dunque, umido di luce), in una
tramatura di luce, che tutto compenetra, fonde, ricuce. Attraverso questa declinazione
luministica del colore, Balsamopuò anche permettersi concessioni (per lui
imprescindibili) di raffinatissimo impianto decorativo: ammaliamenti cromatici e segnici,
licenze ornamentali, che risalgono alla grande tradizione bizantina, ma anche alle sue
pratiche giovanili di decoratore. Eppure esse non fanno mai svanire la fondamentale
compattezza dell'opera, non ci sviano da quel tessuto, da quella trama di segni-luce-
colore, che soggiace ad ogni suo racconto pittorico. Così come il racconto può risultare
più mediato, più scavato, più scritto, più definito segnicamente, più macerato o più
diretto, affidato all'impulso evocativo o al corso illustrativo del colore, pervaso da una
interna carica sentimentale; comunque presenterà sempre la stessa unitaria valenza
espressiva e compositiva: quella di una emozione filtrata e riconosciuta poeticamente
attraverso il serbatoio ed il setaccio della memoria. Lo scrigno della memoria è il
patrimonio di esperienze, e di scoperte, a cui Balsamo si riferisce lungo tutto il suo
dipingere, in cui quasi si immerge, alla ricerca di un ritrovamento di quelle emozioni
fantastiche che rappresentano il cuore della sua vicenda artistica. Ed ogni dipinto è un
piccolo tassello, un brano, un momento ed una pagina di questo racconto fantastico.
Ancora con Crispolti: "Non dunque pagine di diario i dipinti di Balsamo, d'un diario
naturalmente accidentale, occasionale, ma direi qualcosa come preordinate esecuzioni
grafico-formali miratamente tuttavia improvvisate... Che poi quelle linee formative
intreccino costantemente i loro eventi narrativi in una sorta di bioformismo mentale di
episodi d'un inesaurito racconto estremizzato in sintesi immaginativa..."(4). Ora, nella
sua attuale stagione, la sua memoria fantastica, ad esempio, si va sempre più affollando
di "presenze", di entità fantasmiche, di sogni che prendono corpo, ed anche dimensione
e forma; e che noi riusciamo, nella sua lettura dell'opera, a identificare, a rintracciare, a
scoprire. Ma così come esse non rappresentano una rottura, ma solo una fase del suo
continuo, anche rapsodico racconto, pure non vengono ad interferire con l'armonia e
l'omogeneità compositiva; anzi, contribuiscono anch'esse ad accrescere e sviluppare la
magia complessiva.
Giovanni Granzotto
Top
1) Floriano De Santi - Vincenzo Balsamo, il canto del colore-catalogo della mostra antologica 1959/96 (pag. 10) Arpino,
Palazzo Ducale Boncompagni.
2) Enrico Crispolti - Vincenzo Balsamo-Giorgio Corbelli editore, Brescia 1992 (pag. 15).,
3) Idem, IB
4) Idem, IB
Intervista a Vincenzo Balsamo
Arriviamo a Verona per incontrare Balsamo un lunedì di giugno che, per sole ed afa, si direbbe un giorno
di piena estate. La casa è proprio in centro città, in un bel palazzo cinquecentesco. Il suo studio: tanti
quadri alle pareti, altri accatastati a terra, alcuni finiti, molti in via di preparazione. Balsamo non riesce a
star fermo: ci mostra le sue ultime opere e quelle degli inizi, ancora figurativi; ci spiega i suoi progetti, ci
porta di stanza in stanza.
È preoccupato che dalle grandi finestre filtri abbastanza luce perché il fotografo possa fare il suo lavoro;
bisogna riprendere questo e quel quadro, dal momento che ogni pezzo è l'attestazione di un periodo ben
definito del suo lavoro.
"Vede, ho aperto e chiuso cinque periodi distinti nella mia attività pittorica. Tendo a sperimentare
moltissimo e quando riesco a trovare la mia strada, il passato e quello che ho fatto prima non mi
interessano più, vado avanti per quello che sento dentro. Guardi qui: le nebulose degli anni '70, le
decomposizioni, i filamenti con aerografo, sono opere raramente pubblicate e mai portate ad una mostra,
perché sono cose solo mie. Mi sono servite per trovare ciò che sto seguendo oggi, ma allora non mi
piacevano ...
È come con la scultura. Da quest'anno mi sto interessando anche a quella, ma devo ancora studiare,
capire cosa voglio veramente. Verrà col tempo, non ho fretta."
La sintesi segnica di oggi deriva da tutte queste prove, allora?
Anche, ma soprattutto deriva da quello che provo, dal mio pensiero personale. Credo molto nel lavoro di
ricerca: mi è capitato, anni fa, di fare quadri che anticipassero i lavori di adesso, ma allora non li avevo
capiti, non potevo capirli, perché non avevo ancora ben chiaro cosa volessi raggiungere...
La sintesi?
Sì la sintesi, ora sono sempre più proiettato verso la sintesi. Per esempio, oggi sto sintetizzando e
analizzando la tecnica del Cubismo e del Futurismo, e porto avanti secondo un mio dicorso preciso. La
scoperta più importante per me è stata quella del Futurismo, la mia maturazione è avvenuta con Braque e
Picasso, ma tengo a precisare che non mi sono mai interessato a movimenti e correnti specifiche, non mi
sono mai ispirato a qualcuno. Forse solo negli anni '50-60, quando vivevo a Roma, e frequentavo gli artisti
della Scuola Romana. Ma ero giovane, e i giovani, si sa, guardano sempre agli altri.
Il periodo romano...
Ah, lì ho passato il periodo più bello della mia vita.
Gli si illuminano gli occhi, e mi concede uno dei suoi rari sorrisi.
Zizzari (Angelo Zizzari, il gallerista) aveva aperto una galleria a Trastevere, proprio a Trastevere, un
posto dove nessuno si sarebbe mai sognato di aprire una galleria. Mafai e Vespignani abitavano lì vicino;
la sera arrivavano Monachesi, Moretti, Vangelli, Penna, a volte anche Pasolini, e si parlava di arte, si
discuteva, si sperimentava.
Poi Zizzari si trasferì in via Margutta, e diventò un marguttiano, mentre io nel '63 fui scelto, assieme ad
altri, per rappresentare l'Italia a Parigi. Per me è stato un sogno: ho visto gli Impressionisti ed Fauves,
Picasso...
Ed anche Klee e Kandinsky, suppongo.
Lei mi chiede se mi sono ispirato a Klee e Kandinsky?
Vede, questi abbinamenti sono soprattutto dei critici; pensi che Klee non mi piace particolarmente. Ho
trovato stimolante Mirò e anche Kandinsky, per via del colore, ma in realtà il colore mi deriva dalla
vicinanza alla Scuola Romana.
Forse non appartengo alla storia dell'arte io, sono me stesso e basta.
È un pittore puro, quello che vive solo nei suoi quadri?
Certamante. Ogni opera contiene qualcosa di me: ci sono le canzoni napoletane, i miei sogni, la musica...
Le mie origini mediterranee, per esempio, determinano la luce che inonda i miei quadri. Il bianco delle
case, l'aria di mare, uno ce li ha sempre dentro. Ho fatto dei quadri, mai esposti, quasi bianchi, perché mi
porto dietro il candore di Brindisi. Io vivo per il mio lavoro. Non ho amici, sto bene solo ed isolato, lavoro
quindici ore al giorno senza stancarmi.
Non voglio sembrare troppo orgoglioso, ma di Balsamo falsi non ce ne saranno mai.
Prego...?
Sorride.
Il lavoro che faccio, nessuno lo può copiare; la preparazione della tela è talmente lunga e meticolosa, che
sfido chiunque a provarci.
Mi spieghi come nasce un suo quadro.
È un percorso lungo, ci metto dei giorni per preparare solo il supporto.
Faccio prima un lavoro di fondo, una spugnatura diciamo, con pennelli speciali, seguito da una retinatura
che dà quel senso di applicazione divisionista; poi ancora una spugnatura. Quindi la tela va pulita dalle
imperfezioni. Infine comincio a disegnare con pennelli finissimi, per creare un reticolo di linee che man
mano si infittiscono... o si dissolvono. Oggi tendo a smaterializzare il segno.
Parlava del Divisionismo...
Già, Previati e Segantini. Amo molto Segantini, uno dei più grandi pittori italiani che secondo me avrà
ancora molto da dire. Ma il mio non è Divisionismo puro, non prendo alla lettera la teoria della
scomposizione del colore. Utilizzo questa tecnica a modo mio, senza esserne schiavo. Mi serve per dare
vibrazione al tutto, all'insieme.
Stiamo parlando di pittori che ammira. Ce ne sono anche tra i contemporanei?
Burri, Fontana, Veronesi, Radice. Tra tutti però preferisco Dorazio, per la sua capacità di animare il
colore e per la sua tecnica. Credo che Dorazio sia ancora troppo sottovalutato in Italia.
Un'ultima domanda. Perché non mette mai i titoli alle sue opere?
L'ho spiegato parecchie volte... e forse vorrebbe che fosse l'ultima.
Non metto titoli perché voglio dare facoltà a chiunque guardi un dipinto di leggere solo ciò che lo attrae.
Un titolo obbligherebbe lo spettatore a vedere con i miei occhi, ed è proprio quello che non voglio. Gli
esseri umani sono diversi, hanno fatto percorsi differenti; non voglio imporre loro le mie esperienze... mi
basta sapere che provano qualche emozione davanti ad un mio quadro.
Elisa Parma
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